La sera del 4 novembre 1983 c'è parecchia gente al ritrovo Enal, un circolo col bar molto frequentato a San Ferdinando (RC). Attorno alle venti Vincenzo Cannatà entra col figlio Domenico, di undici anni, e con un altro ragazzo, Serafino Trifarò, di quattrodici anni. Consumano qualcosa al bancone e poi si piazzano davanti allocale. L'arrivo di un'auto di grossa cilindrata non dà nell'occhio, ce ne sono tantissime nella zona). La macchina rallenta e s'accosta a un paio di metri dall'ingresso del bar. Sparano in tre, con una pistola semiautomatica e due doppiette. A due metri di distanza è difficile sbagliare il bersaglio, anche per un dilettante. Vincenzo Cannatà è pregiudicato e schedato come mafioso. I pallettoni nemmeno lo sfiorano. Feriti a morte sono i due ragazzi Domenico Cannatà e Serafino Trifarò, l'uno accanto all'altro al momento del blitz. E' inutile la corsa in ospedale: i due muoiono prima di entrare in sala operatoria. Ad accompagnarli è stato Cannatà, subito pronto a dileguarsi. Non ha ancora capito che l'agguato non lo riguarda direttamente, anche se è stato il figlioletto a rimetterci la vita. Il commando assassino ha puntato al ragazzo di casa Trifarò, figlio del boss Pasquale, dato in quota Piromalli, titolare di una ditta di trasporti e movimento terra attiva nel porto di Gioia. Quei due ragazzi morti sono un macabro messaggio recapitato all'ambiente. Nè il primo né l'ultimo. E' inutile dire che per l'omicidio di Cannatà e Trifarò nessuno ha pagato. Il messaggio, così, è ancora più chiaro. (da Dimenticati di Danilo Chirico e Alessio Magro)
La sera del 4 novembre 1983 c'è parecchia gente al ritrovo Enal, un circolo col bar molto frequentato a San Ferdinando (RC). Attorno alle venti
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