Al suicidio non ci crede nessuno. Solo i più sprovveduti possono credere che Donato Bergamini, Denis, si sia ucciso tuffandosi sotto un camion in corsa lungo la statale 106 a Roseto Capo Spulico, a pochi chilometri dalla Basilicata. È il 18 novembre del 1989, il Cosenza è in ritiro al Motel Agip di Cosenza. Denis è in stanza con il suo fraterno amico Michele Padovano, centravanti di razza che avrebbe giocato anche nella Juventus, nel Genoa e nel Crystal Palace. «Dopo pranzo riposavamo», racconta Padovano, «la sveglia era fissata per le quattro del pomeriggio, lo spettacolo iniziava alle quattro e mezza. Intorno alle tre Donato ricevette una telefonata in camera. Non ci feci caso, ma lui cambiò espressione. Sembrava volesse parlarmene, non disse niente: diventò assente». La conseguenza è che «di solito andavamo al cinema con un’auto, quel giorno mi disse che avrebbe preso la sua. Voleva stare da solo». Si ritrovano al cinema Garden di Rende [...] Denis è seduto da solo, dietro di lui ci sono alcuni compagni. C’è anche l’ala destra Sergio Galeazzi che, nel 2009, racconta: «Eravamo in galleria, Donato stava da solo, due file più avanti. Quando si è spenta la luce ed è iniziata la pubblicità ho visto Donato alzarsi. Ero seduto vicino all’ingresso, proprio all’inizio della fila di poltroncine, e ho fatto in tempo a seguirlo con lo sguardo. L’ho fatto istintivamente, come quando ti accorgi che sta accadendo qualcosa. Ho visto con sufficiente chiarezza che lo attendevano due persone». Denis non è più rientrato in sala. Cosa è successo da quel momento in poi è un mistero. Certamente è l’inizio della fine del calciatore di origine ferrarese che a Cosenza ha trovato la sua nuova casa. Quel 18 novembre Denis imbocca la statale 106 verso Taranto insieme a Isabella Internò, la sua ex fidanzata nonchè ultima persona a vedere il calciatore vivo. La ragazza racconta che Donato ha deciso di lasciare l’Italia, che s’è stancato, che vuole partire per la Grecia. Alle diciassette e trenta i due giovani vengono fermati, ma non identificati, da una pattuglia di carabinieri nella zona di Roseto. Poi percorrono appena quattro chilometri e si fermano a parlare in una piazzola di sosta. Sono al chilometro 401. Stanno fermi per un paio d’ore. Da una parte Isabella vuole convincere Denis a rientrare a Cosenza, dall’altra il calciatore insiste nel suo intento di raggiungere Taranto. La tensione in macchina cresce. Finché Denis decide: Isabella sarebbe tornata a Cosenza con la Maserati, lui avrebbe proseguito in autostop. Piove a dirotto, è buio, ma il calciatore scende comunque dalla macchina, raggiunge il ciglio della strada e prova a fermare due auto. Poi vede in lontananza un camion Fiat 180, un autoarticolato, ci pensa un attimo e si butta sotto la ruota. Un vero e proprio tuffo. L’autista, Raffaele Pisano, un cinquantenne di Rosarno, vede l’uomo finire sotto il camion, non fa in tempo a fermarsi. Denis viene travolto, trascinato per una essantina di metri, e ucciso. Il camionista fa anche marcia indietro per vedere se quel giovane è ancora vivo. Questa la verità ufficiale, supportata da indagini del tutto insufficienti e sancita da una vicenda processuale perlomeno frettolosa. Non è chiaro cosa sia accaduto a Donato Bergamini. Se il giovane è stato ucciso per questioni di droga, se la sua morte ha i contorni dell’omicidio passionale, se bisogna guardare al calcio-scommesse, se alle relazioni pericolose che Denis ha dentro e fuori il Cosenza calcio. Ci sono almeno tre circostanze da sottolineare: la ricostruzione ufficiale dei fatti fa acqua da tutte le parti, l’unica testimone continua a sostenere la tesi del suicidio nonostante le mille incongruenze, ci sono quasi certamente persone che sanno e non trovano il coraggio di parlare. Di qui l’appello della famiglia ai magistrati a riaprire il caso per avere la verità. E se invece di suicidio si è trattato di omicidio, perché Donato non è stato ucciso a Cosenza? Lo spiega, ancora una volta, Domizio Bergamini, rivelando una confidenza di due poliziotti in servizio a Cosenza «che sono stati trasferiti». Il killer «era capace di corrompere la Procura di Castrovillari» e quindi agendo su quel territorio s’è assicurato l’impunità, magari con i buoni auspici delle cosche del luogo. (Tratto da Dimenticati di Alessio Magro e Danilo Chirico)
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