Più questione di prestigio che di soldi, il racket non è solo una voce tra le entrate della ‘ndrangheta. L’estorsione è, infatti, il quotidiano esercizio della sovranità territoriale delle cosche, il riconoscimento plastico che a dare il permesso di esistere non bastano le carte bollate dello Stato, ma serve l’assenso dei clan. Tanti, in Calabria, hanno detto “no” e molti hanno pagato con la vita questa scelta di libertà. La loro morte, nella maggior parte dei casi, è senza colpevoli.
In un'intervista televisiva del 1976, Rocco Gatto fu perentorio: "Non pagherò mai la mazzetta: lotterò fino alla morte". Era il proprietario di un mulino a Gioiosa Jonica, nella Locride, con la passione per gli orologi e la tessera del partito comunista. Aveva faticato fin da ragazzino e agli Ursini che gli chiedevano parte del suo rispose senza tentennamenti: “No”. Non lo ammorbidirono intimidazioni e danneggiamenti. Fu l’unico a fare i nomi degli uomini del clan intervenuti per far saltare il mercato domenicale: il giorno prima era stato ucciso il boss Vincenzo Ursini e la ‘ndrangheta intendeva imporre il lutto cittadino. Lo uccideranno il 12 marzo 1977, sulla strada per Roccella Jonica, scatenando però un’imponente reazione collettiva tra manifestazioni pubbliche e storiche prese di posizione: Gioiosa Jonica fu il primo Comune italiano a costituirsi parte civile in un processo di mafia.
Non tentenna neppure Vincenzo Grasso che ha il pallino dei motori e con le mani e la testa ci sa fare. Prima una piccola officina poi, grazie al lavoro e al fiuto imprenditoriale, arriva una concessionaria nella sua Locri. Ad ogni richiesta di mazzetta “Cecè” risponde da subito con una denuncia. Una linea che non cambia anche quando i messaggi diventano tanto duri da farlo piangere, come dopo l’incendio che distrugge la concessionaria appena rinnovata. “Ma il giorno dopo era di nuovo sorridente a lavorare per rialzarsi”, ricorda sempre la figlia Stefania. Una forza ed un’ostinazione che rappresentano uno schiaffo in faccia alla ‘ndrangheta. Lo hanno ucciso il 20 marzo 1989, davanti alla saracinesca della sua attività. Aveva appena finito un’altra giornata di lavoro.
Nicodemo Panetta, invece, era il titolare di un’impresa edile a Grotteria, a pochi chilometri da Locri. Gli avevano incendiato mezzi e poi lo avevano ferito in un agguato, ma di costringerlo a pagare non c’era stato verso. Nel 1986 aveva fatto arrestare capi e gregari delle cosche di Grotteria e Gioiosa Jonica e da allora viaggiava su una Lancia Thema blindata. L’11 giugno 1990 è in compagnia dell’amico Nicodemo Raschella quando i killer entrano in azione a colpi di mitra. Muoiono entrambi. Ancora ignoti mandanti ed esecutori.
Lavorava nel settore edile, da sempre tra i principali business delle cosche calabresi, anche Antonino Polifroni di Varapodio. Contro di lui, e il suo ostinato rifiuto a piegarsi alle richieste estorsive, si susseguono minacce, fucilate contro la casa, incendi. L’imprenditore risponde denunciando e nel 1992 subisce un agguato sotto casa che lo lascia ferito. Quattro anno più tardi la ‘ndrangheta chiude il conto: il 30 settembre 1996 Polifroni viene ucciso da un commando di 4 uomini che termina la sua missione di morte con un colpo di grazia alla testa. Il suo omicidio attende ancora giustizia.
Tre anni dopo tocca ad Antonio Musolino, un geometra di Benestare, piccolo centro preaspromontano, titolare di un’impresa edile e di un frantoio. Alle diverse richieste estorsive Musolino aveva sempre chiuso la porta in faccia, deciso a non scendere a patti con la ‘ndrangheta. I killer entrano in azione il 31 ottobre 1999 dentro il suo frantoio e non gli lasciano scampo uccidendolo davanti agli occhi del figlio. Le indagini sul suo omicidio sono state recentemente riaperte.